Oggi, dopo oltre quattro drammatici mesi di emergenza Covid-19, nessuno mette più in dubbio che le competenze e gli asset digitali della nostra società siano un fattore critico di sopravvivenza, tanto da suddividere le imprese in tre categorie: quelle digitalizzate, quelle in via di digitalizzazione e quelle che sono destinate a chiudere. Negli ultimi 25 anni il nostro Paese ha perso competitività a livello internazionale, soprattutto in termini di produttività del lavoro, lasciando sul terreno non solo e non tanto pezzi di fatturato, ma purtroppo quote importanti di contribuzione al valore aggiunto.
Abbiamo perso migliaia di imprese per fragilità finanziaria nel primo decennio del Terzo Millennio e vissuto una ripresa molto più debole dei nostri pari grado; il tutto in un contesto in cui i Paesi emergenti continuano a crescere anche grazie a costi dei fattori produttivi per noi inavvicinabili e i Paesi evoluti hanno intrapreso una strada di riforma del sistema economico a noi precluso da un immobilismo politico-istituzionale e dal fardello del debito pubblico. Eppure moltissime nostre imprese sono riuscite a crescere nonostante il periodo difficile, grazie alla loro capacità di “fare”; la qualità dei nostri prodotti è spesso difficile da pareggiare grazie al genio e alla capacità di adattamento delle nostre imprese, ma questo differenziale competitivo è destinato a indebolirsi quanto più il sistema industriale mondiale si digitalizza.
Il nostro Paese, fin dall’origine del percorso di evoluzione in senso digitale del mondo e dell’economia, non ha mai giocato la parte del leone, per usare un eufemismo, e gli ultimi dati della Commissione europea (Desi, 2019) dipingono un Paese non solo nelle retrovie continentali quanto a forza e pervasività del percorso verso una società digitalizzata, ma addirittura in fase di distacco dalla coda del gruppo: siamo al 25mo posto, arretrando di una posizione rispetto all’anno precedente, con una forbice crescente rispetto a Francia, Germania e Spagna. L’Italia è posizionata nella media europea solo per quanto riguarda la connettività e la presenza di servizi pubblici digitali, mentre è ultima in Europa nell’area del capitale umano, dove il nostro livello di competenza digitale è addirittura peggiorato rispetto a qualche anno fa.
Il quadro tracciato è piuttosto desolante, ma ha il vantaggio di toglierci un alibi: le infrastrutture per crescere digitalmente in fin dei conti non ci penalizzano tanto quanto invece ci frenano la scarsa propensione e la debole capacità degli individui, delle imprese, della politica e della società tutta a innovarsi in chiave digitale. In questo contesto si innesta la trasformazione economica e antropologica da Covid-19: distanziamento sociale, virtualizzazione dei rapporti produttivi e commerciali, de-globalizzazione delle catene del valore, maggiore sensibilità al tema della resilienza dei modelli economici e di business.
E in questo scenario è emerso chiaramente quanto il digitale sia un fattore ancora più imprescindibile: le aziende con processi già digitalizzati (in primo luogo produzione e vendita) hanno continuato a operare, nel limite del possibile; quelle meno abituate allo smart working e senza un sistema di e-commerce hanno dovuto interrompere completamente le proprie attività. Il lockdown e le misure conseguenti, peraltro, hanno agito come forzante formidabile: l’intero sistema, dai piccoli esercizi commerciali alle Pmi dalla Pubblica amministrazione alla Scuola e all’Università, con velocità diverse e risultati differenziati, posto di fronte al bivio tra inopia e cambiamento, ha dimostrato come i freni culturali al cambiamento, fino a “ieri” i veri inibitori della trasformazione digitale, possono essere superati in poche settimane.
Per questo, l’attributo “digitale” rischia di far perdere di vista la vera sfida della cosiddetta “trasformazione digitale”, ossia la trasformazione del modo di fare business come necessario passaggio per uscire dalla crisi ed evolvere. Una trasformazione che riguarda tutti gli aspetti del fare impresa, dalle vendite alla gestione del personale, dall’organizzazione delle filiere al rapporto con gli intermediari finanziari, dallo sviluppo innovativo al marketing, essendo il “digitale” contemporaneamente fattore abilitante e fattore di innesco.